Biancaneve e i sette woke: il film della Disney è imbarazzante

ISCRIVITI AL CANALE WHATSAPP DI TVIWEB PER RIMANERE SEMPRE AGGIORNATO
Di Alessandro Cammarano
C’era una volta… eh già… perché adesso non c’è più. “Che cosa?” chiederanno i nostri lettori: la risposta è che a non esserci più, o meglio ad essere definitivamente scomparsa è la gioia della narrazione non imbrigliata, senza ingessature pseudo-egualitarie, capace di portare un piacere sincero; perché, si sa, come le mezze stagioni non esistono più le mezze misure, quelle dettate dal buonsenso e dal raziocinio, perché in un mondo manicheo non esiste più margine per il compromesso, inteso nell’accezione pù alta del temine.
La ragione di tutto ciò? Semplice: negli ultimi anni, l’industria dell’intrattenimento ha assistito a un’accelerazione vertiginosa del cosiddetto fenomeno “woke”, un termine che, originariamente concepito per descrivere una sensibilità – sacrosanta – alle ingiustizie sociali, è ormai divenuto sinonimo di una certa ortodossia culturale, spesso dogmatica e impermeabile alla complessità del reale.
Un esempio emblematico di questa deriva è rappresentato dal controverso nuovo live-action di Biancaneve, targato Disney, che ha suscitato aspre critiche ben prima della sua uscita a causa di alcune scelte narrative e di casting percepite da molti come forzate e artificiose.
La celebre fiaba dei fratelli Grimm, resa immortale dal capolavoro d’animazione del 1937, è stata riscritta con una sensibilità contemporanea che, lungi dall’arricchirne il significato, sembra piuttosto svuotarla della sua essenza archetipica. L’eliminazione dell’elemento romantico tradizionale, con la protagonista che “non ha bisogno di un principe”, e la rivisitazione dell’iconografia dei Sette Nani, sostituiti da una rappresentanza eterogenea e non necessariamente collegata all’elemento fiabesco, sono stati percepiti come un’operazione di rinnovamento sterile, più dettata dall’agenda ideologica che dalla volontà di raccontare una storia che possa parlare al cuore del pubblico.
Il problema di fondo di questa tendenza è che il revisionismo imposto non nasce da un’esigenza organica della narrazione, bensì da una necessità di conformarsi a un modello di inclusività rigido e predeterminato, che spesso si traduce in un’operazione cosmetica e poco autentica.
In questa smania di riscrivere il passato per aderire a nuovi dogmi, si finisce per ottenere il paradosso di opere che, pur professando emancipazione e innovazione, risultano scolastiche e prive di anima, oltre che parecchio ipocrite.
A questa ipocrisia fa, fortunatamente da contrappunto una virtuosa contrapposizione di narrazioni autentiche, nelle quali si affronta la realtà nuda e cruda dei fatti.
Prendiamo ad esempio, restando in ambito cinematografico, “Il ragazzo dai pantaloni rosa”, film del 2024 diretto da Margherita Ferri, ispirato alla tragica storia vera di Andrea Spezzacatena, un quindicenne romano che nel 2012 si tolse la vita dopo aver subito atti di bullismo e cyberbullismo da parte dei compagni di scuola.
La trama segue il percorso di Andrea, un ragazzo sensibile e gentile che, attraverso il modo di vestire, come l’uso di pantaloni rosa, esprime la propria personalità; tuttavia, questa scelta lo espone a derisioni e discriminazioni da parte dei compagni di scuola. Il film approfondisce le dinamiche dell’amicizia tra adolescenti, mostrando come il desiderio di essere accettati possa portare a esperienze difficili e dolorose.
Un aspetto centrale della narrazione è il ruolo dei social media nel favorire l’isolamento e la derisione, mettendo in evidenza i pericoli del cyberbullismo. Attraverso la rappresentazione delle conseguenze di questi comportamenti, il film vuole sensibilizzare il pubblico sull’importanza di promuovere il rispetto e l’empatia nelle relazioni quotidiane.
Il messaggio principale è chiaro: è essenziale riconoscere e combattere ogni forma di bullismo, sia offline che online, per prevenire tragedie simili. “Il ragazzo dai pantaloni rosa” invita dunque a riflettere sull’importanza dell’inclusione e del sostegno reciproco, sottolineando come l’indifferenza e la crudeltà possano portare a conseguenze gravi e irreparabili, non limitandosi a raccontare una vicenda intensa e drammatica, ma proponendosi anche come un mezzo di sensibilizzazione per educare il pubblico sul bullismo e sull’importanza di costruire ambienti scolastici e sociali più accoglienti e rispettosi delle diversità.
Ovviamente qualcuno ai piani alti – regno consacrato al fariseismo – lo ha giudicato “divisivo”, che aggettivo vuoto e orrendo, e dunque inadeguato alla proiezione nelle scuole. Dove andrebbe proiettato se non nelle scuole?
In definitiva, la sfida per l’intrattenimento contemporaneo non è negare l’evoluzione culturale o rifiutare il progresso, bensì trovare un equilibrio tra rappresentazione e narrazione autentica.
Provando a trarre una conclusione; quando il messaggio sovrasta la storia, il risultato è spesso artificioso e controproducente. Quando, invece, la sensibilità sociale è integrata organicamente nella trama, il racconto diventa non solo più potente, ma anche più capace di toccare realmente i sentimenti del pubblico.